Con il Covid, i ragazzi di 18 -20 anni si ritrovano senza iniziativa e sospesi nel presente. Mentre i loro genitori manager cinquantenni sono pieni di rabbia per i loro figli, sprondandoli insistentemente a trovare un obiettivo.
Questo breve pensiero mi deriva dai tanti ragazzi che ho seguito come psicologa e che sempre più chiedono negli ultimi mesi un aiuto. Anziché buttarsi in discoteca desiderano parlare di sé, e lo sanno fare meglio di noi adulti, con molta più profondità e consapevolezza emotiva.
Durante la pandemia, in questi tre anni di paura e reclusione non si può pensare abbiano aperto delle prospettive ai ragazzi. Essi sono vissuti isolati e senza esperienza relazionale, e questo li rende tuttora insicuri e titubanti.
Chi invece è cresciuto nell’epoca d’oro, si è laureato negli anni 90 e ha trovato subito lavoro, non può applicare ai propri figli gli stessi schemi di allora. Non può applicare le stesse metodologie educative, né proporre gli stessi obiettivi manageriali ai propri ragazzi.
I genitori Manager 50enni sono pieni di fretta, per far recuperare ai ragazzi questi anni persi. Vedono nei loro figli poca voglia di fare e poca spinta ad accorciare i tempi della ripresa.
La ripresa psicologica non ha gli stessi tempi della ripresa sociale. Paragoniamone la lentezza e la titubanza piuttosto alla difficoltà della ripresa economica.
Dopo il Covid, avere aperto i locali e tolto le mascherine è una azione. Diverso è il sentimento che accompagna questi ragazzi a riprendere davvero delle relazioni che non si sono neanche mai create.
Nel periodo di maggiore opportunità relazionali, nell’età 18-20 anni (3 anni fa erano 15-18 enni) in cui si vivono i rapporti con la massima spensieratezza e ci si misura coi pari per apprendere chi siamo noi, l’unico confronto che i ragazzi hanno avuto coi pari è stato virtuale, ovvero inesistente.
Il virtuale è infatti la proiezione psicologica del sé su un mezzo che media tra sé e il prossimo, dove anche l’altro può rispecchiarsi e giocare il ruolo che noi gli diamo.
Ma ancor più la relazione virtuale può essere interrotta in ogni momento e senza sforzi solo “spegnendo” il cellulare o bloccando un gioco, dove le parti non siamo noi ma il nostro avatar.
Se il ritorno alla presenza sembra automatico per un adulto, che ha già maturato e fatto esperienza del proprio sé in mezzo agli altri, per un giovane non si tratta di un ritorno ma di una realtà del tutto nuova. Una realtà dove per la prima volta dai 15 anni in su egli scopre che il suo corpo è il vero mezzo di intermediazione nella relazione con l’altro. Dove il virtuale non rappresenta alcuna relazione reale e dove le conseguenze del proprio comportamento non sono “bloccabili” ed annullabili con un clic.
Per un genitore è pertanto prematuro attendersi nei figli una ripresa repentina, una schiarita degli obiettivi immediata e focalizzata. E’ piuttosto realistico che al contrario i ragazzi abbiano necessità di ripartire da dove la loro vita si è fermata, tre anni fa. Ripartire iniziando dalla scoperta di sé e della propria esistenza in mezzo agli altri coetanei.
Ricominciando dalle prime esperienze relazionali, in un corpo cresciuto con una emotività che si è congelata da troppo, e dentro la quale loro si sono addentrati a riflettere, molto più dei loro genitori di successo.
L’emotività dei ragazzi è piena di paura da sciogliere, e per questo ci vuole tempo.
I manager del passato non sono più attuali neppure in azienda, e questo lo stanno scoprendo ogni giorno. Grazie a questa scoperta c’è bisogno di stare fermi coi propri figli ed attendere che questi dimentichino la paura della morte e, in non meno di tre anni, riprendano una vita che saranno loro a determinare.